giovedì 15 aprile 2010

P.I.G.S. E DISASTRO GRECO
Chi si interessa di economia e soprattutto di macroeconomia sa quanto siano divenute importanti nel tempo le cosiddette “A” assegnate da alcuni operatori e ricercatori finanziari. Una società molto quotata ed importante di rating, Moody’s, stilò una classifica di Paesi in base ad un indice poco valutato ma molto significativo: l’indice di miseria dello Stato. Anche in questa occasione Inglesi e Americani si confermarono i più cattivi anche nell’appellare con nomi e nomignoli anche gli indici, prendendo la classifica fatta da Moody’s diedero il meglio di loro creando un acronimo eccezionale: P.I.G.S. Cosa è? Semplicissima risposta: Portogallo, Italia, Grecia e Spagna.
Col tempo la “I” cambiò proprietario: si passò dall’Italia all’Irlanda.
Ma cosa hanno in comune gli indici di miseria della Moody’s ed i P.I.G.S.? Apparentemente poco, poiché quando un esperto di economia o un singolo cittadino pensa alla parola “miseria” non ragiona su questi quattro paesi ma bensì su altre nazioni, magari asiatiche o africane. Invece, come raramente accade, un indice ed un acronimo si incontrano e si intersecano su un determinato Stato: la Grecia. Moody’s ha declassato la Grecia poiché la povertà è davvero arrivata, così come la disoccupazione, a livelli molto elevati: le famiglie greche, a differenza di quelle italiane e americane, rispettivamente, non risparmiano e non giocano in Borsa. Quando risparmiano si rivolgono a banche che sono controllate da altri gruppi stranieri, soprattutto francesi e tedeschi, e quando investono puntano i loro soldi su titoli rischiosissimi o pochi vantaggiosi. Sono questi due motivi che hanno portato alla ribalta un dato macroeconomico importante: il debito pubblico greco è detenuto per il 75% da investitori stranieri.
Quest’ultimi, in un periodo dove ancora i mercati finanziari si leccano le ferite dopo la crisi generata dalla bolla dei mutui subprime, dalla rivoluzione attuata dalla Federal Reserve sulle grandi banche d’investimento americane, hanno spesso, forse giustamente, deciso di puntare sulla Grecia.
Gli investimenti fatti dal Governo greco, basti pensare al piano fallimentare per rendere Atene il centro del turismo ellenico, sono caduti uno dopo l’altro. Se a tutto questo aggiungiamo anche una bilancia commerciale e delle partite correnti in netto deficit, la Grecia ne esce con le ossa fratturate.
Per questo, e soprattutto per nascondere i bilanci statali negativi grazie, quasi fosse uno sberleffo, alla Goldman Sachs, la Grecia ha quasi dichiarato banca rotta.
Ma un fallimento statale in Europa non è permesso: la Grecia fa parte dello scacchiere economico europeo perciò, fallendo la Grecia, potrebbe fallire un progetto. Un progetto di un’Europa unita e pronta ad affrontare le sfide comuni anche sotto il punto di vista economico. Jacques Attalì ha recentemente affermato che da questa crisi potrebbe nascere una nuova governance europea finanziaria, Tommaso Padoa-Schioppa ha sottolineato ancora una volta l’importanza dell’Euro in questa delicata partita e moltissimi operatori hanno posto fiducia nell’Eurogruppo, nei Ministri dell’Ecofin e soprattutto nelle menti di persone competenti e pronte ad affrontare una nuova sfida.
Questa volta l’Europa è al bivio: salvare la Grecia per salvare se stessa o salvare l’Unione Europea dalla Grecia?
E’ questo il dubbio che si annida nelle teste di Capi di Stato, di Governo e dei vari Ministri economici dell’intera Unione Europea.
E’ giusto quindi salvare con i soldi pubblici di altri Stati il fanalino di coda Grecia? E’ un comportamento virtuoso? Soprattutto: siamo davvero certi di non creare uno spiacevole precedente?
A queste domande risponderanno i detentori del potere esecutivo di ogni Stato europeo. Sperando che essi per non affossare un’idea nobile non affossino un’economia intera che ha ben reagito alla crisi e che non ha mai dimenticato la strada maestra da seguire in tempo di crisi: la strada del rigore.
ENRICO LO GIUDICE.

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